Paesaggi pasoliniani, una ‘missione educatrice’

Pier Paolo Pasolini è stato uno degli esponenti più criticati del panorama letterario italiano del secondo dopoguerra, salvo poi essere stato riabilitato post-mortem e, con più vigore, in tempi recenti. 

L’enorme varietà e vastità dell’impegno intellettuale e letterario e cinematografico, che si snerva lungo il corso di un trentennio, non facilita il compito a chi voglia valutare – brevemente – il lavoro pasoliniano. 

Ho individuato pertanto un percorso tematico in linea con l’idea alla base della rubrica oikos: la rappresentazione del paesaggio

Cosa intende, dunque, il corsaro della letteratura italiana quando parla di paesaggio

Pier Paolo Pasolini visse gran parte della sua adolescenza e giovinezza in quel clima denso di risentimento e voglia di rinascita che contraddistinse la resistenza italiana e il secondo dopoguerra. Gli scrittori che si formarono a seguito della Seconda guerra mondiale, hanno assistito letteralmente alla trasformazione del paesaggio italiano – sia da un punto di vista geologico che da un punto di vista etico e morale. (Scaffai, 2017)

Quello appena enunciato, è il presupposto minimo per comprendere l’idea pasoliniana dell’attività intellettuale quale compito civile a cui non ci si può sottrarre. Un esempio sono gli articoli di carattere politico-culturale scritti durante il periodo universitario; ma anche le lettere, che mostrano chiaramente la sua idea di un connubio irrinunciabile tra teoria e pratica letteraria, il cui fine è la missione educatrice della sua generazione. 

Siffatta consapevolezza aumenta negli anni, rendendo, di fatto, l’opera di Pasolini un documento attento ai cambiamenti storici, sociali ed economici, senza nascondere la sua natura di constestazione. Diviene, anzi, una denuncia di carattere etico, di natura ambientalistica e predisposta alla custodia del paesaggio culturale. (Iovino, 2004) 

Secondo questa visione, il paesaggio non è più soltanto un luogo geografico, ma è soprattutto un luogo storico, un contesto stratificato a livello linguistico  e identitario. 

Un’idea linguistica di paesaggio

Un primo approccio del giovane Pasolini con l’idea di paesaggio riguarda la relazione tra di esso e la memoria, fruita tramite la lingua. Quest’ultima è espressione della pluralità di tradizioni e di volti, e riesce ad esprimere una realtà più vasta e multiforme rispetto a quella geografica e limitata del territorio. Il dialetto friulano – la lingua di sua madre – diventa così lo strumento tramite il quale lo scrittore corsaro scopre e sperimenta questa possibilità. Lo utilizzerà nella sua prima raccolta di versi, le Poesie a Casarsa (1942). 

Nella prefazione all’Antologia della poesia dialettale italiana, suo primo lavoro critico, analizza la poesia friulana, e scrive parlando di sé in terza persona:

egli si trovava in presenza di una lingua da cui era distinto: una lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata da coloro che egli amava con dolcezza e violenza, torbidamente e candidamente: il suo regresso da una lingua a un’altra – anteriore e infinitamente più pura – era un regresso lungo i gradi dell’essere. […] Conoscere equivaleva a esprimere. Ed ecco la rottura linguistica, il ritorno a una lingua più vicina al mondo.

Questo paesaggio culturale significa quindi per il poeta immedesimarsi in un contesto sociale e linguistico diverso rispetto a quello suo originario (Pasolini era nato a Bologna). Il Friuli diventa allora un paesaggio linguistico e storico, il perfetto quadro ideologico da opporre all’Italia fascista. 

Nell’Italia degli anni ‘30, territorio rurale e dialettale, il regime fascista costruiva le sue istanze nazionalistiche anche sull’idea di un’uniformità data dalla lingua, che di fatto rifiutava le nicchie linguistiche. La scelta, dunque, di un dialetto come lingua poetica è un primo atto di disobbedienza civile. (Iovino, 2004)

Da quel momento ha inizio un percorso di disobbedienza che, già dalla fine degli anni ’60, farà di Pasolini l’emblema della polemica; è così che Pasolini inizia a rivalutare l’operato e la trasformazione subita dalla politica italiana dopo gli anni del cosiddetto miracolo economico. Il mondo in continuo mutamento degli anni ’50 è, agli occhi dello scrittore, un mondo perduto, poiché perduto è il paesaggio. Quest’ultimo, annientato nelle sue caratteristiche originarie – vale a dire la devastazione della campagna, con conseguente distruzione  dell’ecosistema – è di fatto la rappresentazione viva della violenza del paesaggio urbano. Questa serie di riflessioni lo condurranno nel 1974, anno prima della sua morte, a partecipare per  la televisione italiana (RAI) ad un film documentario. Partecipazione che si è concretizzata nella realizzazone di un film di riflessione diviso in due parti – La forma della città -, esplicito esempio di studio di antropologia urbana tramite il linguaggio cinematografico non-fiction.

Nella prima parte il regista si accompagna a Ninetto Davoli – noto attore dei suoi film – nella città industriale di Orte. Qui spiega a Davoli gli inconvenienti delle architetture urbane che detuparno il paesaggio. Nel corso della seconda parte, invece, la scena si sposta a Sabaudia, dove Pasolini abbattendo la quarta parte, si rivolge direttamente alla telecamera, concludendo il cortometraggio come se volesse spiegare tramite le immagini quelle parole che aveva scritto nei tanti articoli, poi raccolti sotto il titolo di Scritti corsari: qui si possono trovare alcune tra le argomentazioni più brillanti della sua polemica contro l’omologazione. 

La scomparsa delle lucciole

Ma vi è un’altra rappresentazione scelta da Pasolini per rendere chiari gli effetti della mutazione del paesaggio sociale: questa si basa su una – ormai famosa – figura ecologica (Scaffai, 2017), vale a dire la celeberrima scomparsa delle lucciole.

Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. […]
Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte […]. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi.  

La rovina culturale dell’Italia viene adesso imputata a un potere quasi più minaccioso di quello fascista – definito clerico-fascista – che coinvolge tutto il paesaggio:

distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, […] degradazione antropologica degli italiani, […] abbandono “selvaggio” delle campagne, […] esplosione “selvaggia” della cultura di massa […]

Il paesaggio linguistico-culturale italiano, vittima di questo cambiamento, è portatore di una conseguenza ancora più drammatica: il nuovo potere ha trasformato antropologicamente gli italiani. Pasolini parla addirittura, forse drasticamente, di genocidio

L’Articolo delle lucciole, come è stato poi rinominato, mette a nudo la critica circostanza di un vuoto di potere, che  di fatto evidenzia l’assenza di uno spazio politico e linguistico, ormai completamente alla stregua del potere economico. L’ignoranza dell’elite politica capitalista ha inquinato l’aria e l’acqua, ha distrutto secoli di civiltà e di valori. Nel paesaggio-Italia le lucciole, simbolo di un territorio a questo punto distante, non ci sono più. Si inserisce in siffatto contesto di salvaguardia del paesaggio, un documentario in forma di appello all’Unesco, intitolato  Le mura di Sana’a, rigaurdante la distruzione di un’intera città.
Sono le immagini adesso a parlare, che mai – nel processo di comprensione della narrazione pasoliniana – possono essere messe a parte. A raccontare è lo stesso Pasolini che sottolinea a gran voce la minaccia incombente sulla capitale dello Yemen preziosa come Venezia o Urbino, Amsterdam o Praga, in balìa di chi è incapace di valorizzarne le bellezze. Dunque, la denuncia drammatica del poeta (min. 2:29):

A li scopini, un manifesto politico ed ecologico

Il 24 aprile del 1970 si tenne a Roma il primo sciopero dei netturbini: promossero tre giorni di sciopero nazionale, durante i quali denunciarono le condizioni miserevoli in cui versavano i lavoratori del settore, considerati di fatto gli ultimi della società civile

L’occasione dello sciopero dava naturalmente a Pasolini un’ottima ragione per schierarsi dalla parte di questi paria della società, che si occupavano di ripulire le città affamate di capitalismo. 

Noi apparteniamo all’Ordine degli Scopini
Ci rassomigliamo tutti come i frati:
il primo voto sarebbe quello del silenzio.
Lo scopino se ne va tutto solo col suo bidone
sul carrettino, e lo spigne, cercando –
Al sole o al brutto tempo lo scopino
spigne il carrettino con sopra il bidone,
e lo scopone in mano, cercando.

Il testo appena riportato faceva da corredo quindi ad un progetto nato in occasione dello sciopero che insieme ad un documentario girato sempre da Pasolini avrebbe dovuto fare parte di un’opera collettiva. Il film venne effettivamente girato, ma non montato ed è stato ritrovato – privo dell’audio – soltanto nel 2005 negli scaffali polverosi dell´Archivio del Movimento Operaio e Democratico da Mimmo Calopresti

Calopresti si è occupato in seguito al ritrovamento di passarlo su supporto digitale. Ha inoltre dato vita ad un suo omaggio allo scrittore intitolato Come si fa a non amare Pier Paolo Pasolini. Appunti per un romanzo sull’immondezza

Le immagini mute girate dal corsaro Pasolini dividono il documento in tre parti: l’assemblea dei netturbini, gli scopini al lavoro ai Mercati generali di Roma, ed infine le interviste ai netturbini sul loro posto di lavoro.

Lo sguardo rivoluzionario e anticonformista di Pasolini ha evidenziato le falle del sistema politico ed economico capitalista, ma non solo. Lo scrittore ha anche un merito tra i tanti: quello di aver incentrato la totalità della sua produzione letteraria e cinematografica su un’umanità lasciata ai margini delle rappresentazioni artistiche, se non in qualche raro caso. 

La tendenza del lavoro letterario e artistico in genere del corsaro a considerare i problemi nella loro totalità, ci dona la possibilità di osservare in maniera meno semplicistica le grandi questioni della società contemporanea. 

Che cosa comunico, alla fine 
della mia carriera di poeta, che sotto sotto,
si considerava indispensabile per l’umanità?
 
Ecco la risposta (nel mattino
del primo gennaio 1969): Una spiacevole ironia. 

A differenza di quanto credeva egli stesso, la sua voce resta oggi fondamentale e dal punto di vista artistico-letterario e dal punto di vista di comprensione e accoglienza della congrega umana.

Fonti consultate

Iovino, Serenella. 2004. “Lucciole, voci e pale d’altare. Pier Paolo Pasolini e l’etica del paesaggio culturale.”

Iovino, Serenella. 2014. “Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza. Ristampa 2014 con nota dell’autrice.”

Niccolò, Scaffai. 2017. “Letteratura e ecologia.” Forme e temi di una relazione narrativa, Roma, Carocci.

Pasolini, Pier Paolo. 1985. “Passione e Ideologia (1948-1958)[1960].” Torino, Einaudi.

Pasolini, Pier Paolo. 1993. “Bestemmia: Tutte le poesie, vol. 1, Graziella Chiarcossi and Walter Siti (eds), Milan: Garzanti.” MICHAEL HARDT.

Pasolini, Pier Paolo, and Nico Naldini. 1986. Lettere: 1940-1954. Vol. 5. Einaudi.

Pasolini, Pier Paolo. 1976.  Lettere luterane, Einaudi. 

Siti, Walter, and Silvia De Laude. 1999. Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società. Milano: Mondadori.

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