“L’abbiamo fatta anche noi questa guerra” di Tina Merlin

Tina Merlin è principalmente conosciuta come la Cassandra del Vajont per aver più volte avvertito prima del disastro avvenuto nell’ottobre 1963; tuttavia la sua lunga militanza nel giornale l’«Unità» l’ha resa un personaggio chiave dell’Italia degli anni del dopoguerra. La casa sulla Marteniga, libro da cui è tratto il brano che segue, è la…

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L’Arte può essere fratellanza?

Negli ultimi mesi, il mondo si è ritrovato di fronte al pericolo di un altro conflitto su scala mondiale. Oltre la guerra fra Ucraina e Russia, che ha terrorizzato il mondo intero, c’è stato un’intensificarsi del conflitto israelo-palestinese, riportando l’attenzione  su un tema sempre più attuale: quello dei rifugiati. Milioni di abitanti di quei luoghi, attraverso i corridoi umanitari, sono stati costretti ad abbandonare i propri cari e tutto ciò che avevano, per trovare accoglienza in Paesi a loro stranieri. Giunti nelle nazioni che danno loro ospitalità, inizia, però, un processo altrettanto difficile: l’integrazione. Essi devo adattarsi ad una nuova lingua, ad usi e costumi di luoghi a loro estranei. 

Sorge spontaneo domandarsi se esista un linguaggio universale che possa farli sentire accettati e parte di una comunità. Una risposta a questa domanda mi è stata data da un servizio andato in onda il 1° maggio su uno dei tg delle reti pubbliche nazionali. Si parlava di come la Comunità di S. Egidio abbia dato la possibilità ad un gruppo di rifugiati di visitare la Galleria di Villa Borghese a Roma. Illuminanti sono state le parole di Irina, ragazza ucraina di 35 anni che ha dichiarato: “È stato molto importante per me. L’Arte è di tutti e per tutti. L’Arte è fratellanza!”. 

A queste parole mi sono chiesta: l’Arte ha davvero un ruolo così importante?  Allora, ho ripensato a tutti i grandi artisti che, a causa della Rivoluzione Russa, delle persecuzioni razziali e dei due grandi conflitti mondiali, si sono ritrovati esuli dalle proprie terre natie. E, una volta accolti da altri Paesi, grazie alle contaminazioni, agli scambi culturali con artisti locali ed artisti di altre nazioni, sono riusciti non solo ad imparare nuovi stili e linguaggi pittorici, ma anche a farli propri, assimilarli e superarli, creandone di nuovi. 
Gertrude Stein li definiva la Generazione perduta. Carlo Levi, invece, li considerava dei ribelli e ne percepiva la forza sovversiva.
Fra tutti, lo colpiva Chaim Soutine. Nato a Minsk da una famiglia ebrea poverissima, prima studia arte in patria, poi, per sfuggire ai pogrom zaristi, raggiunge Parigi nel 1913. Provato dalla violenza antisemita e dalla povertà, libera la pressione che sente addosso con la pittura. Al Louvre scopre Coubert, Rembrandt e Velasquez da cui prenderà i soggetti, imiterà lo stile e assimilerà l’uso del colore e della luce. Viene accostato agli espressionisti, ma ha una visione e tecnica pittorica così personale da non aderire ad alcuna corrente artistica. I temi principali dei suoi dipinti sono oltre la cacciagione, i paesaggi allucinati ed i ritratti (vere e proprie rappresentazioni psicologiche, che rendono unici i soggetti trattati, ma sempre connotati da quella tristezza, eco del suo travaglio interiore).

 Ma è soprattutto  attraverso i ritratti di bambini e fanciulli che emerge un sentimento d’infanzia negata. È il 1942, quando dipinge Due bambini sulla strada: è costretto a scappare dai nazisti ed è malato di un’ulcera che si trasformerà in tumore e lo ucciderà nel 1943; conscio della malattia e stanco degli orrori della guerra, tornerà a rifugiarsi nell’infanzia, con una tenerezza inaudita.

Chaim Soutine, Two children on the Road, 1942

I due bimbi si tengono per mano in un campo arato da poco. Sono soli, senza adulti. Lui protegge lei, come fratello e sorella. Alle loro spalle una foresta e un villaggio. I colori sono meno accesi e squillanti di un tempo, ma è sempre il colore a definire le forme. Essi sono frontali allo spettatore. Il messaggio che dà a noi è chiaro: sembrano scappare da ciò che li circonda con innocenza, ma vengono verso di noi ad incolparci della loro fuga, abbandonati dagli adulti e dalla Storia.

Suo contemporaneo è Max Ernst, uno dei più importanti pittori del ‘900. Nasce in Germania e, dopo gli studi di filosofia, si dedica all’arte e fonda il gruppo Giovane Renania. Inizialmente è influenzato da Cubismo, Espressionismo e Rinascimento tedesco. Ma nel 1914 è costretto ad arruolarsi per la I guerra mondiale. In seguito, fonderà il movimento Dada di Colonia, approfondendo il Dadaismo di Zurigo, i dipinti di De Chirico e di Klee. Si ispira, inoltre, a Durer, Grunewald e Bosch. Tra il 1919-21 si dedica a collage e fotomontaggi, dando vita a composizioni in cui muta forma agli oggetti o dà loro doppia identità. Si avvicina, dunque, al gruppo Dada di Parigi e al Surrealismo che utilizzava la Magia del Realismo (in cui gli oggetti, nonostante siano distorti e trasformati, restano realistici). Sperimenta diversi stili e, dopo l’incontro con Breton, inventa le tecniche del Frottage, del Grattage e del Dripping. Diffamato in patria (dal 1933 è classificato artista degenerato dai nazisti), fatto più volte prigioniero dei francesi, si rifugia a New York. 

La sua arte nasce come reazione agli orrori della guerra. La sua avversione ad essa ed al nazismo ha avuto massima espressione nel dipinto L’Europa dopo la pioggia. Realizzato nel ‘41 a New York, il dipinto è un requiem per l’Europa completamente devastata dalla guerra. L’unico soggetto del dipinto rimasto in vita è un uccello antropomorfo. Per alcuni, rappresenta la guerra stessa; per altri, il Loplop (creatura fantastica e suo alter ego) è proprio Ernst che è fuggito dall’Europa e dalla guerra.

Altro importante pittore vicino al surrealismo è Marc Chagall. Nasce a Vicebsk da un’umile famiglia ebrea. Inizia a studiare arte in Russia, per poi trasferirsi a Parigi nel 1910. Da subito, però, inizia a sentire nostalgia di casa. A trattenerlo: il Louvre. Si avvicina ad Espressionismo e Cubismo, ma li supera: la realtà si fa immaginazione, ricordo e simbolo. Temi dei suoi quadri sono: i ricordi della patria e dell’ infanzia. La sua pittura è il mezzo per far vivere e mettere su tela la sua vita interiore. Nel ‘17, tornato in Russia a causa della guerra, abbraccia con entusiasmo la causa della rivoluzione russa. Ben presto, però, il suo modo di vivere e concepire l’arte si scontrano con la politica del governo dei Soviet. La sua arte, troppo tendente al sogno, poco si confaceva con l’arte propagandistica propugnata dagli artisti della rivoluzione che poco spazio dava alla libera ispirazione artistica. Così nel ‘23  torna a Parigi.

Marc Chagall, Crocefissione Bianca, 1937

Dopo un viaggio in Palestina ed uno in Polonia, si accorge che il mondo del giudaismo, per lui rifugio idilliaco di una felicità senza tempo, è ora minacciato dai Pogrom e dal fanatismo di stampo nazista ed antisemita. Così, nel ‘38 dipinge La crocifissione in bianco, dove esprime tutto il suo disagio nei confronti della politica contemporanea. Cristo Crocifisso è simbolo non solo della comunità ebraica di cui è profeta, ma dell’umanità tutta, come Dio della Cristianità che è morto come uomo. È il dolore dell’umanità intera, è simbolo universale della miseria del suo tempo. Intorno a lui, rivoluzionari comunisti che compiono razzie e appiccano fuoco, mentre un uomo con la divisa nazista profana una sinagoga. A far da contraltare alla loro violenza, figure emaciate che tentano di fuggire, un battello di profughi che chiede aiuto, un ebreo errante che scavalca un rotolo di torah in fiamme ed, in alto, i testimoni dell’antica Alleanza che piangono per tale scempio. A dar loro speranza un fascio di luce che illumina la figura di Cristo, fonte di speranza. Tramite lui la sofferenza scompare e la fede pone fine alla disperazione. L’arte di Chagall fu, forse, il più convincente appello alla tolleranza ed al rispetto della diversità mai lanciato dall’arte moderna.

Se egli trova, dunque, rifugio dalla realtà in sogni e ricordi, se Soutine lo fa rifugiandosi in un’infanzia perduta, se Ernst preferisce perdersi nel surreale, Rothko ha, invece, come unico mezzo di liberazione il colore! 
Mark Rothko è stato uno dei più grandi esponenti dell’Espressionismo astratto. Nasce nel 1903 a Daugavpils (un tempo Russia, oggi Lettonia). A causa dell’antisemitismo della Russia zarista e la paura del padre che i due figli maggiori potessero essere chiamati al fronte nella prima guerra mondiale, tutta la famiglia decise di partire per gli Stati Uniti. Fu così che nel 1913 si trasferirono a Portland. Ma Mark in America si sentì sempre un emarginato e tale sensazione gli rimase per tutta la vita. Non riuscì mai a perdonare ai suoi genitori di essere stato sradicato dalla sua terra e trapiantato in un posto che non sentì mai completamente casa. Studente diligentissimo, prima studia a Yale, poi Arte. Dopo varie mostre personali, nel ‘35 fonda il gruppo the Ten, focalizzati sulla ricerca in ambito dell’Astrattismo e dell’Espressionismo. Solo nel ‘45 sceglie l’Espressionismo astratto e diviene uno dei massimi esponenti della Color Field Painting.

Dichiara: «Non possono esistere astrazioni. Ogni forma o superficie che non possiede la concretezza della carne e delle ossa vere e della sua vulnerabilità al piacere o al dolore, non è niente. Un quadro che non offra l’ambiente in cui non si possa infondere il soffio della vita, non mi interessa. Non mi interessano i rapporti di colore, di forma e di qualsiasi altra cosa. Mi interessa solo esprimere emozioni umane fondamentali. Se la gente vuole esperienze sacre, le troverà. Se vuole un’esperienza profana, troverà anche quella». 
Egli lasciava completa interpretazione allo spettatore tanto da ispirare i Rolling Stones per la famosa canzone Paint it black.

Mark Rotko, Black Blue Painting, 1968

Nonostante il successo, però, non smette di sentirsi un incompreso ed un emarginato. Lui che definiva la sua arte un’avventura sconosciuta in uno spazio sconosciuto, si suicida nel febbraio del ‘70.

Come aveva ben detto Simone Weil: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’animo umano». Alla luce di ciò, ripensando alla funzione dell’Arte e se essa sia davvero di tutti e possa essere fratellanza, io rispondo: SI! L’Arte è espressione, è comunicazione, è sentimento, è un linguaggio universale e diretto. Porta sulla scena l’umanità e la rende immortale ed atemporale. Non importano luogo e tempo. Qualsiasi sentimento l’essere umano viva, in qualsiasi epoca, lo ritroverà già espresso nell’Arte. l’Arte è sofferenza che si trasforma in rinascita, che si trasforma in bellezza per vincere l’orrore, la fragilità e la caducità dell’essere umano. È rifugio per chi cerca di essere accettato, di far parte di una comunità, di chi cerca un’Identità. È  identità! È la memoria dei popoli. L’Arte è cultura. Ma soprattutto, contaminazione. È la trait d’union fra tutte le diverse culture che possono esserci sulla terra. Essa ci ricorda che, per quanto possiamo essere così diversi, abbaiamo tutti gli stessi bisogni e desideri, che siamo tutti uguali e che siamo tutti umani.

Fonti consultate:

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