#3_VIAGGIO

la parola

La parola viaggio sembra metterci in guardia fin da subito, con quella sua iniziale che seguendo due vie si biforca, come a suggerirci che per partire bisogna saper compiere delle scelte: cosa portare, quale via scegliere, quando andare? Subito la strada ci illuderà che il peggio è passato – con quella i appena pronunciata, quasi adombrata dall’affanno della scelta appena compiuta – ci sembrerà quasi un rettilineo, semplice semplice, che ci accompagnerà fino alla prossima lettera. Una A austera ci si pone davanti con aria di sfida, ma poi – complici la meritata discesa e i due tornati sinuosi delle g – iniziamo ad essere dispiaciuti di dover presto tornare, mentre sfrecciamo sull’ultimo rettilineo, saltando sul puntino che ci porterà alla perfezione di un cerchio ben chiuso, trovandoci già impazienti di ripartire. 

l’arte di viaggiare

Il termine viaggio (come i suoi cugini viajar e voyage) avrebbe radici nel latino viaticum, ovvero l’insieme delle provviste ritenute necessarie ad affrontarlo. Questo ci suggerisce che i viaggi si misurino con ciò che il viaggiatore porta con sé, difatti possiamo immaginare come i viatici di pellegrini, colonizzatori, esploratori, commercianti, emigranti, astronauti, giornalisti, fotografi e turisti siano cambiati considerevolmente. E anche nel tempo i viatici sono mutati, come è ovvio che sia. 

Tutt’altra storia porta con sé invece il termine inglese travel, originariamente associato al faticare e al soffrire. Sfogliando The Art of Travel dello statistico inglese Francis Galton (1855) ci si avvicina a capirne il motivo. Qui infatti, partendo dal presupposto che viaggiare fosse un’arte che doveva essere appresa, l’autore – peraltro cugino di Darwin – elenca una grande quantità di notizie e informazioni utili al viaggiatore della sua epoca. Questo ad esempio elenca gli oggetti che potevano servire da galleggiante, fornisce istruzioni per conservare il burro, spiega come fare il sapone e come mantenere il fuoco acceso, e si spende sull’importanza di un tessuto: la flanella. Spulciando nell’equipaggiamento consigliato troviamo oggetti che difficilmente metteremmo in valigia oggi, come bilance a molla, ami da pesca, balle di stoppino per lampade, carne secca per 5 giorni e regali da distribuire come ricompensa. Diventa così subito chiaro come un tempo per viaggiare erano necessarie – sebbene siano state omesse da Galton –  dosi inesauribili di curiosità e coraggio, mischiate a tanto spirito di adattamento, una buona scorta di fiducia per l’umanità e un pizzico di incoscienza. Sopravviveva insomma a questi viaggi – che oggi ci appaiono come un interminabile susseguirsi di pericoli,  sforzi fisici e intellettuali, grandi scomodità e lunghe attese – solo chi era ingegnoso abbastanza e provvisto di un viatico ben organizzato (quanto esotico ai giorni nostri). Ma quali erano quindi i benefici che nutriva un viaggiatore? Questi invece Galton li menziona: “Uno dei vantaggi del viaggiare è l’aura di distinzione che il viaggio conferisce. Se si compie il viaggio in un paese che desta l’interesse di coloro che sono rimasti a casa, si sarà invidiati da chi non ha avuto l’opportunità di fare altrettanto. Per non parlare poi dei vantaggi scientifici, che sono enormi. Si può vedere in quale modo opera la Natura non contaminata dall’uomo e conoscerla sotto nuovi aspetti. Oltre a ciò, si ha tutto il tempo di cercare risposte a problemi che attraggono l’attenzione per la loro novità. Il giovane viaggiatore può avere la sorpresa, proprio grazie ai suoi interessi scientifici, di essere ammesso al cospetto di scienziati che egli aveva conosciuto prima soltanto di fama e riverito come eroi.

Figura 1: Un’illustrazione tratta da The Art of Travel

grand tour

In italiano, francese, inglese e spagnolo il termine turista avrebbe invece la stessa madre: tour. Nata tra il Seicento e il Settecento si diffuse in Europa col fenomeno dei Grand Tour, ovvero l’usanza dei rampolli delle famiglie borghesi di compiere viaggi di formazione – perlopiù in Francia, in Grecia o in Italia – al fine di erudirsi studiando l’arte, la storia, la politica e le radici fondanti dell’Europa. Ne è un esempio Viaggio in Italia di Goethe. Iniziò così la circolazione delle prime guide turistiche (resa possibile grazie alla stampa), che diffusero il concetto di viaggio come scoperta e valorizzavano alcuni percorsi piuttosto che altri, in tempi in cui le locande erano generalmente ben poco confortevoli e gli spostamenti dipendevano dalla resistenza degli animali o dei portantini. 

Nel 1841 venne fondata la prima agenzia turistica al mondo, la Thomas Cook & Son, mentre nello stesso periodo cominciarono il turismo dei bagni e quello termale. All’Exposition universelle del 1878 si poteva ammirare la prima boule à neige che solo dieci anni dopo, con l’inaugurazione della Torre Eiffel, subì l’aggiornamento che le fece sbucare al centro quella bislunga piramide metallica in miniatura. Questo potrebbe essere stato il primo souvenir della storia. 

città continue

Nel secondo dopoguerra – grazie al diffondersi del benessere, della pace, della moda dell’abbronzatura e con l’istituzione delle ferie pagate – il concetto di turismo cambiò considerevolmente. La pratica del viaggio si tramutò in quella delle vacanze, accessibili a tutte le classi sociali dei paesi sviluppati, e il turismo iniziò a diventare massivo. Parallelamente iniziarono a spuntare dei viaggiatori indipendenti, giovani e squattrinati ma avidi di viaggi. Complice il diffondersi della cultura della Beat Generation, i giovani statunitensi si misero in viaggio in autostop come in On the road di Jack Kerouac; mentre in Europa i membri della controcultura hippie partivano per viaggi picareschi via terra per arrivare sino all’Asia meridionale. Di questi viaggi ci sono giunti diversi diari, come La polvere del mondo, in cui Nicolas Bouvier descrisse quello che un decennio dopo divenne l’Hippie Trail, e il romanzo autobiografico Flash ou le Grand Voyage di Charles Duchaussois. E proprio sull’Hippie Trail nacquero le guide Lonely Planet e Routard.

Figura 2: Martin Parr, Bethlehem, Palestine. 1986.

Basta confrontare le mete delle lune di miele di nonni e genitori per rendersi conto di quanto velocemente spostarsi si sia trasformato in un’esperienza banale, che non ha più nulla da condividere col faticare. Nel tempo è diventato sempre più evidente lo yin e lo yang di questo turismo vacanziero: se da un lato il fatto di poterci muovere liberamente ci ha ampliato gli orizzonti (sebbene secondo un noto proverbio veneziano: “Viagiar descanta, ma chi parte mona, torna mona”), ci permette uno stile di vita invidiabile e garantisce benefici alle popolazioni locali, dall’altro questo comporta diversi problemi, come la carenza d’acqua nei luoghi di recente sviluppo e lo stupro degli habitat naturali e umani. 

La gentrificazione da turismo sta trasformando i luoghi che abbiamo sempre chiamato casa in parchi divertimento affollati da quelli che sembrano essere diventati i nuovi viaggiatori, i viaggiatori dell’inerzia. Questi, che pur spostandosi (sempre e solo in branco) si oppongono al moto, appaiono privi di curiosità e di rispetto per le popolazioni locali e sembrano intendere il viaggio puramente come status symbol da esibire. Già nel 1995 Tiziano Terzani, reporter di guerra che ha trascorso tutta la sua vita viaggiando per il mondo, scrisse: “Che brutta invenzione il turismo! Una delle industrie più malefiche! Ha ridotto il mondo a un enorme giardino d’infanzia, a una Disneyland senza confini.”

Nell’era del turismo superficiale il bastone da selfie è il viatico più diffuso – e già c’è chi propone di viaggiare senza valigia e di dover comprare un biglietto per poter entrare nelle città, mentre la mercificazione delle esperienze ha fatto sì che le attività offerte si siano uniformate. Ma perché quindi viaggiamo se le nostre città stanno diventando sempre più uguali? Forse per egoismo, ma così facendo stiamo trasformando un mondo eterogeneamente magnifico in una città continua calviniana. 

Figura 3: Alessandro Armando, Trude

“Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d’essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Seguendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l’albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi con compratori e venditori di ferraglia; altre giornate uguali a quella erano finite guardando attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi che ondeggiavano. 

Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire. 

– Puoi riprendere il volo quando vuoi, – mi dissero, – ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aeroporto.”

Le città invisibili, Italo Calvino, 1972

Dovremmo forse riapprendere la faticosa arte di viaggiare e tenere sempre presente quanto fortunati siamo a poterci muovere così facilmente. Vi siete mai chiesti quali sono le parole evocate dalla parola viaggio nei bambini che hanno rischiato la vita per rivendicare il loro diritto a spostarsi? C’è chi gliel’ha chiesto, regalandoci un progetto cartonero incredibilmente romantico: ‘Fogli di viaggio’.

Figura 4: Poesia illustrata di Alexandru tratta da Fogli di Viaggio

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