“Conquistata da chissà che mano” di Goliarda Sapienza

Il breve testo che segue è tratto dalla raccolta di racconti postuma della scrittrice catanese Goliarda Sapienza, Destino coatto. Ci restituisce un profilo maschile patologico, dalle movenze tossiche, il cui ego spropositato non si accontenta di “possedere” i momenti di veglia della “sua” Linuccia, ma pretende di occuparne persino i sonni e i sogni. Una lotta inconscia che fa venire a galla pensieri e pose nocivi: Linuccia, del resto, è, agli occhi del suo congiunto, avida, almeno quando non si comporta come dovrebbe; ottiene, però, il suo favore quando è docile, quando non chiede, quando resta immobile e tranquilla.

Sul finale ci restano dell’amaro in bocca e delle sensazioni cattive, e in più una domanda: Linuccia è ancora viva?

Il titolo del racconto non è originale, ma da me estrapolato tra le righe del racconto stesso. Buona lettura!


Linuccia? Dorme. Dorme o fa finta? Non l’ho mai capito. Nei primi anni era un tormento questo suo cadere così, da un momento all’altro, nel sonno. Dove andava? Chi la trascinava via? Qualcosa la trascinava via. Lo sentivo dal morso che mi stringeva le viscere. A quel ricordo – molti anni sono passati – mi viene ancora da vomitare. Forse perché stavamo allora in una stanzetta come questa. E sì, piú o meno come questa. Eravamo sposati da poco, io non guadagnavo molto e la mattina mi alzavo presto per andare a lavorare (dove? Ah sì, dall’avvocato Bruno). E così ero costretto a lasciarla lì che dormiva. Non pensate che dormisse sempre, no, non sempre. Si faceva la vita di tutti: il giorno si usciva, si entrava, si aspettava il tram e quando avevamo qualche soldo in più, si prendeva il taxi e si andava a cena al ristorante. Questo era per me qualcosa di straordinario. E sì, perché bastava che invece dell’N. T. – come si chiamava allora l’autobus – si prendesse il tassì che lei si svegliava tutta eccitata. Già, forse tutto è avvenuto perché io non sono riuscito ad avere soldi abbastanza per portarla sempre in tassì e al ristorante. Deve essere così perché appena stavamo senza soldi lei si addormentava.

In quegli anni, mi vergogno a dirla, una gelosia di questo suo cadere nel sonno, pallida, senza difesa, conquistata da chissà che mani, braccia che non conoscevo, cominciò a tormentarmi talmente che entrai in un negozio e comprai una lampadina tascabile. E che credete, una piccola, da tasca, inoffensiva? No, una grande, una specie di faro. E sì, di quelle da guardiano notturno, di quelle che si usano in campagna, nelle miniere. Per spiarla. E cominciai a spiarla quando si addormentava. Di notte e di giorno, lì, su di lei, a spiarla. Ma non era possibile capire niente. Niente si leggeva sul suo viso. Per spiegarvi: io avevo una sorella che quando dormiva si muoveva, che so: sospirava, rigirava gli occhi, sorrideva. Ma lei, la mia Linuccia, niente. Stava lì immobile, tranquilla, abbandonata, ma io sentivo che dietro quell’immobilità si nascondeva qualcosa di più fantastico e trascinante che dietro i sospiri di mia sorella. Anche perché… nei primi anni, quando il sangue è ancora caldo, e per l’amore e per la giovinezza, quando la prendevo lei era così immobile, tranquilla… lasciamo andare! Anche per questo, a poco a poco, quel suo abbandonarsi al sonno sola, senza di me, mi entrò nel cervello come un trapano che non mi faceva più dormire né mangiare, né, quando mi abbracciava, sentire desiderio. Sapete com’è: prima ti viene un dubbio che ti tormenta astrattamente, ma non avendo fatto nessun atto concreto, questo dubbio resta solo un dubbio e non si configura in niente di preciso, di definitivo. Si sa: se non domandi non hai risposta. Ma comprare quella lampadina fu un «atto», il diavolo deve avermelo suggerito. L’avevo comprata e lì, anche chiusa nel cassetto, mi spingeva ad agire. Per sorprenderla, tornavo all’improvviso lasciando gli affari, l’ufficio, gli amici. La notte l’insonnia cresceva. Non chiudevo occhio per scoprire cosa e perché e dove e chi la trascinava. Lei scivolava lontano nei suoi sogni immobile, attraente, mentre io ero reale, di carne, con la lampadina in mano affannato, sudato, appena tornato dall’ufficio o appena svegliato dal richiamo di quella lampadina.

Poi in ufficio non andai più, e adesso faccio qualche lavoretto in giro – sempre nel mio ramo: la legge – per andare avanti. Perché io e lei ci vogliamo bene. Certo la passione d’allora non è più così forte, ma c’è tanta dolcezza fra me e Linuccia. Questo anche perché lei non mi ha mai rimproverato di non averla più potuta portare in tassì e al ristorante. È così comprensiva Linuccia. Ha capito che bisognava avere molti soldi per condurre una vita così e che io, dovendola spiare, avevo poco tempo per procurarmeli. È molto comprensiva. Anche questa sera, io sono uscito e lei non mi ha chiesto né dove andavo né quando tornavo. Non chiede mai. È discreta. O è perché vuole andare lontana nel sonno che è così discreta? Io, per la verità, lì per lì, ero contento di andare a una festa da solo, come quando ero giovane. Ero felice di rivedere Paolo, Giuseppe, Carmelo, Cesare, Antonio, Angelo, come ai vecchi tempi da scapoloni senza pensieri. L’avevamo deciso allora appena finita la guerra. L’avevamo detto: fra vent’anni, in qualsiasi posto ci si trovi, ci riuniremo tutti. Tutta la brigata con coltelli e rivoltelle pronti per l’attacco. Ma non è stata una buona idea. Non si torna indietro. Ritrovandomi scapolo, solo, in mezzo a tutti quegli uomini… che vi devo dire? Non li riconoscevo. E poi, il pensiero di quella sua discrezione, troppa discrezione. Li ho lasciati e sono tornato a casa. E anche ora, questo suo non chiedere niente, neanche in una occasione così rara come uscire la sera solo e tornare a notte avanzata. Fiducia? Fiducia o desiderio di restare sola?

Ho fatto bene a tornare. Anche perché mai, in questi vent’anni, mai è stata così a lungo lontana da me. Pensate: tre giorni e tre notti, lì, abbandonata sul cuscino bianca, immobile… come una morta. La lampadina, dov’è la lampadina?

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