Domani nella battaglia pensa a tutt*

Manifestare il proprio dissenso è sicuramente diventato uno dei comportamenti più sovversivi negli ultimi anni. Complice la sempre maggiore penetrazione della destra in Europa e nel mondo, al potere perché ritenuta l’unica a detenere la magica ricetta per risolvere la crisi in cui ci crogioliamo, dire che si è contrari al sentire comune o andare contro le scelte dei governi sembra avere come conseguenza la repressione, o, perlomeno, l’essere messo a tacere. Con più o meno violenza a seconda dei casi.

Essere antifascista è diventato un tabù, o perlomeno un motivo per essere identificati dalla Digos. Una protesta pacifica di studenti può essere causa di manganellate e bastonate. E così discorrendo.

Ma alcune proteste sono migliori delle altre, a quanto pare. Come quella degli agricoltori che in tutti i Paesi dell’Unione Europea si sono mobilitati contro i provvedimenti che si intendeva porre in atto per la tutela dell’ambiente e contro il degrado del suolo, che ha portato ad un dietrofront della Commissione Europea.

Ma prima di iniziare a scaldarci, forse dovremmo portare la riflessione ad un livello più elevato, e chiederci perché siamo arrivati a questo punto e cosa si può fare perché si possa continuare ad esprimere il proprio dissenso senza per questo sentirsi in pericolo.

La sensazione diffusa è che, proprio per il ritorno in auge della destra, il dissenso venga coperto o contrastato. Tante manifestazioni sono state impedite o hanno visto scontri e violenza, anche contro persone molto giovani. Sempre più spesso si sente parlare di un ritorno alla dittatura, di mancanza di libertà, di corto circuito della democrazia.

Se è vero che manifestare opinioni contrarie alla maggioranza (o, meglio dire, ai governi) sembra essere diventato più difficile, un punto che sembra importante ricordare è che è difficile parlare di corto circuito della democrazia. Non si può ancora dire che “si è tornati al fascismo”, perché, seppure moltitudini di persone la pensino diversamente dai rispettivi governi, almeno nella maggior parte dei Paesi del mondo i governi sono stati eletti in elezioni regolari cui hanno partecipato i cittadini, e agiscono in loro nome e per il loro conto.

Si può però sicuramente parlare di una certa disaffezione per la politica in generale, di un allontanamento dal processo elettorale, in mancanza di candidati adeguatamente rappresentativi. Non è un mistero, per esempio, che le elezioni vedano una scarsa partecipazione dei cittadini aventi diritto al voto, proprio perché si ha la sensazione di non sapere chi meglio possa rappresentarli in seno alle istituzioni.

Forse quello a cui è più opportuno fare riferimento è un concetto più ampio, a carattere generale: la perdita di valori, di coscienza collettiva. La sensibilizzazione rispetto ai temi più importanti è poca e fatta male, con informazioni confuse e che la maggior parte delle persone non è in grado di decodificare e interiorizzare: non è un caso che ormai sempre più spesso e volentieri una sola protesta diventa tante proteste diverse allo stesso tempo, il che rischia di creare confusione e far perdere di vista il singolo obiettivo.

Così come è giusto indignarsi perché le violenze contro chi manifesta il proprio dissenso siano solo casi isolati, è giusto anche cercare di veicolare il proprio dissenso in maniera chiara, forte e univoca. Di combattere una battaglia per volta, perché tutte insieme si rischia di generalizzare tutto e affrontare tutto con superficialità. Di capire, anche, quando è un dissenso “sano” e quando, invece, è solo fine a sé stesso. Bloccare una strada con migliaia di persone che va a lavorare non può essere un modo costruttivo di protestare. Presentare delle proposte concrete ai propri rappresentanti e nel rispetto della legalità e di tutto e tutti lo è probabilmente molto di più.

Domani nella battaglia pensa a tutt*, ma uno alla volta, e con la testa sulle spalle.

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