#1_GUERRA

generalità

Sostantivo femminile dal germanico [werra] che indicava, forse, un combattimento di mischia, una rissa, una zuffa. L’antica guerra germanica dei barbari, contrapposta all’ordinato e più sofisticato bellum, discendente di quel polemos (gr. πόλεμος) di cui gli antichi avevano scritto e dissertato. Guerra è parola difficile, densa, assai utilizzata. Impossibile da comprendere, circoscrivere, una parola che ha fatto la storia, letteralmente. 

la “Werra”

Ma proviamo a immaginare e giocare con le parole. Anche quelle pericolose e scottanti come la nostra.

Werra sarebbe quindi la “guerra” e porterebbe con sé l’idea dell’assalto e della mischia, più probabilmente nella sua visceralità e nel risultato rumoroso di armi che si scontrano o che esplodono i loro colpi, piuttosto che quello della trattazione, della strategia, dello studio. Tanto che il latino sovrapporrà ad un certo punto il bellus (amabile, elegante, grazioso) al bellum (propriamente, “guerra”), e quest’ultimo sarà assorbito dalla forma neutra del predetto aggettivo. Così oggi noi abbiamo l’aggettivo bello in italiano e il sostantivo guerra. I Romani forse – continuiamo a fantasticare – avevano assaporato la werra dei barbari e così ne avevano assorbito anche la parola: tanto che oggi l’italiano usa la radice germanica (guerra), così come il francese (guerre), lo spagnolo (guerra), il portoghese (guerra) e infine ancora il più fedele napoletano (‘uerra). Eppure, la violenza del dittongo e della doppia /r/, questa carnalità del suono che richiama alla mischia e ne riproduce l’attrito, non ha mai dissuaso i parlanti dal pronunciare ampiamente la parola. Ieri come oggi. 

un (solo) passo indietro

Tra il 1914-15 in Italia ci fu, come noto, un fervente movimento interventista contro il neutralismo che aveva tenuto l’Italia fuori dal conflitto. L’interventismo, a favore dell’entrata in guerra appunto, soleva pronunciare e scrivere sui giornali la parola guerra, ma non come un fenomeno o una descrizione storica, o come il risultato di un processo politico e diplomatico destinato a fallire; bensì come lo sfogo impetuoso di un sano neo-risorgimentalismo, di un sincero irredentismo, di orgoglioso eroismo. La parola guerra, così, iniziava a diffondersi sui giornali e sulle bocche della gente, come una scelta giusta, come una conseguenza necessaria, come il passo della Storia che non poteva fermarsi. Tanto che ad un certo punto Filippo Marinetti, intellettuale futurista scriverà, nel Manifesto del Futurismo:

«Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore del liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna ‘sottomessa e timorata’»

(Manifesto del Futurismo, Le Figaro 20 febbraio 1909)

Così la tanto agognata entrata in guerra dell’Italia ci sarà, la guerra sarà difficile, unica nel suo immenso coinvolgimento di uomini, risorse e territori. Sarà la Grande Guerra, prima di essere nominata la Prima di due guerre mondiali; dopo che gli uomini decideranno di combattere una seconda folle guerra, devastante come (o forse più) della precedente. 

un passo avanti (?)

Dopo il frastuono della Seconda Guerra Mondiale, negli anni del cosiddetto dopoguerra non è che non ci siano state altre guerre, tutt’altro. Ma la parola mantenne quell’aura di ancestrale terrore, vivido ancora negli occhi e nella memoria dei contemporanei. Gli anni dal 1950 al 2023 non sono stati assolutamente anni di pace, anzi. Durante la Guerra Fredda, il mondo ha vissuto una miriade di sanguinosissimi “caldi conflitti” dalla guerra in Corea al Vietnam, i conflitti in Medio Oriente, dal Ruanda alla Cecenia, sino all’Ucraina e il conflitto israelo-palestinese che si è ultimamente riacceso, per citarne solo alcuni. In tutti questi conflitti a pagare le spese in termini di vite umane sono sempre i civili. Se contiamo tutte le guerre insieme, milioni di civili. Eppure, linguisticamente, sono stati anni di “pace”, anni di benessere. Almeno nella retorica dell’Occidente, quella che ci attraversa maggiormente. E oggi? Dopo il congelamento della pandemia e dopo lo “scongelamento” della guerra fredda, con lo scoppio di nuovi e recentissimi conflitti, la parola guerra fa la sua brutale ricomparsa sulla bocca di tutti: intellettuali, politici, cittadini, motori di ricerca, bambini. Ha fatto la sua ricomparsa ed appare – credo- diversamente mitizzata, non immediatamente esaltata, non divinizzata come cento e passa anni fa, ma giustificata. Appare come una normale inferenza della pace, una normale risposta all’invasore, al terrorista, al pericolo, alla paura. Appare, direi, come un istinto, filologicamente un impeto.  

Ma la parola è anche arcaizzata, decontestualizzata. Due esempi recentissimi, tra i più conosciuti peraltro, senza addentrarmi in questioni politologiche. Nella retorica di Putin, ad esempio, si è parlato di questa guerra attuale, senza mai chiamarla guerra, anzi usando questo nome solo nei riferimenti ad un’altra guerra, la Seconda Guerra Mondiale. Strano – ma forse non così tanto –  che di una simile retorica erano vestite le parole di Zelensky qualche mese dopo lo scoppio della guerra, nel discorso proferito proprio nell’anniversario della vittoria sul nazifascismo. Nel citato discorso si parlava della Seconda Guerra mondiale e si fa riferimento ai concetti importanti che l’hanno attraversata: nazismo, libertà, indipendenza. La guerra presente viene proiettata – almeno linguisticamente – su uno sfondo lontano; la guerra passata, d’altra parte, viene sovrapposta a quella attuale. Così si rievocano anche le urgenze, le paure, i bisogni, le responsabilità di quel periodo e risuonano, nel discorso, attuali.  Adesso è rimasto solo lo spazio per il rumore reale della guerra, la quale va avanti anche senza essere nominata. Da qualche mese, allo scoppio di nuovi incendi in Palestina si è manifestata la triste occasione per liberare nuove (o vecchie) retoriche di guerra, la parola guerra va usata in difesa, come scudo, di altre parole: libertà, reazione, difesa, diritto, democrazia, sopravvivenza etc.  E a discapito della vita umana. 

epilogo

La parola guerra, nella sua fonetica ruvida e nella sua retorica larga, che copre gli eventi e li giustifica, ha spesso fornito difesa ad altre parole, ad altri concetti. Gli antichi Romani parlavano di bellum iustum come una guerra regolare, legale, in aiuto di popoli alleati. Più recentemente abbiamo parlato di guerra preventiva, per evitare pericoli peggiori. Poi si è aggiunta la guerra al terrorismo, quella ad ogni costo. E così via, gli esempi potrebbero moltiplicarsi innumerevoli.  Infine, oggi mi pare che la parola si sia di nuovo inflazionata. La guerra è guerra. È  di nuovo la risposta necessaria, il passo svelto della mischia che non permette il ragionamento, che esclude il dialogo, che connota l’avversario come nemico, l’hostis, la guerra ridisegna l’ostile, a posteriori anche se serve. Nessuno ha voglia di fare domande a questa parola, nessuno ha voglia di tornare a smascherare la guerra per quello che è. 

A guerra songh’io
a guerra songh’io
io song’ o cunfine
a guerra songh’io
Io l’aggio pensata
io l’aggio vuluta
m’è nata int’o core
me l’aggio sunnata

(Guerra Tammurriata Nera, Peppe Barra)

Consigli paralleli: le interferenze di Zirma

MUSICA – Guerra / Tammurriata Nera – Peppe Barra

LIBRI – Guerra – Louis Ferdinand Céline

PODCAST – La Letteratura può aiutarci a capire la guerra? – Fare un fuoco di Nicola Lagioia

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