Rifugiati, profughi e sfollati nel diritto internazionale: il caso ucraino

Dal 24 febbraio ad oggi 6.983.041 profughi ucraini hanno varcato i confini del loro Paese, stravolto dalla guerra portata dalla vicina Russia. Sebbene fino all’ultimo si sia sperato di evitare che il drammatico evento avesse luogo, il conflitto è infine giunto alle porte dell’Europa, e, con esso, una serie di conseguenze, tra cui, appunto, la più grande crisi migratoria dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Rifugiati, profughi, sfollati. Sono tutti termini con i quali siamo ormai diffusamente entrati in contatto e che vengono quotidianamente citati da tutti i giornali e media internazionali. Ma quali sono le differenze? È corretto utilizzarli tutti come sinonimi?

Rifugiati, profughi e sfollati nel diritto internazionale

Secondo il diritto internazionale, che regola i rapporti tra gli Stati, non si tratta esattamente della stessa cosa: ogni termine indica una categoria di persone a sé stante.

La definizione di rifugiato è forse la più risalente nel tempo. Essa rientra nella più ampia sfera del diritto internazionale relativa al trattamento dei cittadini stranieri. Se, appunto, uno Stato è generalmente libero di ammettere o meno un cittadino straniero sul proprio territorio, questa regola presenta delle eccezioni con riferimento a determinate categorie di persone, tra cui rientrano, appunto, i rifugiati.

La Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, il primo strumento giuridico internazionale in materia, definisce i rifugiati come quelle persone che temono, a ragione, di essere perseguitate nel loro Paese per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche; per questo motivo, fuggono dal proprio Stato di origine, cercando protezione in un altro Stato. Elementi caratterizzanti di questa condizione sarebbero, dunque, la fuga dal territorio dello Stato di origine e la natura diretta della persecuzione come motivo di fuga. Da questo deriva che non possono, e non devono, rientrare in questa categoria quelle persone che sono spinte ad allontanarsi dal proprio Paese di origine a causa di motivazioni strettamente economiche.

La Convenzione non indica come lo Stato debba procedere a concedere lo status di rifugiato; è questa una procedura, dunque, che rimane a discrezione dello Stato ospitante. 

Lo status di rifugiato può anche essere escluso o cessare. Nel primo caso, non si può qualificare una persona come rifugiato se i soggetti sono già beneficiari di una protezione alternativa offerta da parte delle Nazioni Unite (è il caso, ad esempio, dei palestinesi che beneficiano del supporto della United Nations Relief and Work Agency for Palestine Refugees in the Near East, meglio conosciuta con l’acronimo UNRWA), se non è ritenuta necessaria una protezione internazionale perché essi godono ed esercitano diritti e obblighi connessi alla residenza nel loro Paese, o se tali soggetti sono ritenuti colpevoli di aver commesso crimina juris gentium (crimini contro l’umanità) o qualsiasi altro atto ritenuto contrario ai princìpi delle Nazioni Unite. Nel secondo caso, esistono quattro casistiche diverse in base alle quali un rifugiato può cessare di essere tale: la riassunzione volontaria della protezione nazionale, il riacquisto volontario della cittadinanza, l’acquisto di una nuova cittadinanza e il ristabilimento volontario della residenza nello Stato in cui sussiste il timore di persecuzione. 

Nei confronti dei rifugiati esiste un obbligo di diritto internazionale consuetudinario, applicabile dunque a tutti gli Stati della comunità internazionale, in base al quale tali individui non possono essere respinti verso il Paese verso il quale sussista il timore di persecuzione. Tale principio, definito di non refoulement, è inoltre contenuto in diverse altre Convenzioni internazionali, tra cui la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) del 1950. 

Diverso è il significato che va invece attribuito al termine profughi, anche chiamati displaced persons o personnes deplacées. Anch’essi, come i rifugiati, sono costretti a fuggire dal proprio Stato di origine e non possono disporre della sua protezione. Tuttavia, i motivi alla base della loro fuga sono diversi. A portarli ad allontanarsi non sono comportamenti direttamente tenuti nei loro confronti dal loro Stato di origine, ma motivi generalizzati di pericolo e violenza, tra cui rientra, appunto, la guerra. Inoltre, se nel caso dei rifugiati è da escludere la possibilità di collaborare con lo Stato di provenienza, ciò si presenta invece come una necessità per i profughi, il cui scopo principale è quello di ritornare in terra natia una volta non più sussistenti le condizioni che li hanno costretti alla fuga. Per questa ragione, la protezione che viene loro concessa è per sua stessa natura temporanea.
Da ultimo, ci si è iniziati a confrontare con un fenomeno ormai presente da tempo sulla scena internazionale e che si è ritagliato un suo autonomo spazio in seguito alle peculiarità dei conflitti attuali: gli sfollati (internally displaced persons), definiti dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite come individui che sono stati obbligati a fuggire dalle loro abitazioni a causa di conflitti o altre situazioni di violenze generalizzate e violazioni di diritti umani, ma che non hanno voluto, o non sono riuscite a, varcare il confine del proprio Stato. La loro singolare condizione è data appunto dal fatto che, restando nel loro Paese di origine, è estremamente complicato portare loro aiuto. Per questo motivo, le Nazioni Unite sono in cerca di soluzioni specifiche per contrastare un fenomeno che interessa oggi quasi 50 milioni di persone al mondo.

I profughi ucraini: che ne sarà di loro? E degli altri?

I profughi ucraini che da ormai quasi tre mesi stanno fuggendo dal conflitto sono una sfida senza precedenti per l’Unione Europea, che fino a poco tempo fa vedeva ancora le schermaglie dei suoi Paesi membri sul tema e che non ha ancora provveduto alla riforma del sistema di accoglienza e protezione per tutte le categorie di persone che si sono allontanate dal loro Paese di origine.

Se il sistema di accoglienza per i rifugiati è normato dal regolamento 604/2013/UE, che è stato più di una volta criticato dagli Stati membri dell’Unione per gli iniqui criteri di redistribuzione, per i profughi la storia è un po’ diversa.Si è scelto di provvedere ai loro bisogni con una direttiva, la 55 del 2001, a causa della straordinarietà del fenomeno e delle sue peculiari caratteristiche.

In questo strumento si prevede la possibilità di dare accoglienza a quelle persone che giungano nel territorio dell’Unione Europea a causa di generalizzati motivi quali, soprattutto, guerre, violenze e violazioni dei diritti umani. Dal momento che lo scopo principale è quello di riuscire a far ritornare, in un secondo momento, gli individui nel loro Paese di origine, la protezione è solo temporanea: può durare un anno ed essere rinnovata fino ad un massimo di due. Ai beneficiari viene fornito un permesso di soggiorno e garantita la possibilità di esercitare diritti quali, tra gli altri, l’esercizio della propria professione, l’accesso ad un alloggio e ad assistenza sanitaria ed economica, l’accesso all’istruzione.

Questa direttiva, essendo stata attivata per la prima volta, ha posto gli Stati di fronte a non pochi ostacoli, soprattutto di ordine logistico, vista la portata dei flussi. Dove trovare un luogo per ricoverare tutte queste persone? Come prevenire la possibilità che donne e bambini, che rappresentano le categorie più numerose tra le persone che stanno fuggendo dal conflitto, vengano maltrattati o sequestrati dai trafficanti? 

Gli Stati membri sono stati in questo piuttosto tempestivi e in poco tempo, con l’aiuto della popolazione civile, hanno organizzato l’accoglienza dei profughi giunti dall’Ucraina, fornendo loro alloggi anche offerti dai cittadini e facendo riprendere le lezioni a scuola per i giovani in età scolare.

Nonostante non vi siano precedenti per lo meno per quanto concerne la portata dei flussi, altre crisi hanno interessato il nostro continente prima di questa. I Paesi europei si sono resi conto, adesso, che gli estremi per l’attivazione della direttiva sulla protezione temporanea si sono già verificati altre volte, non da ultimo, appunto, nel 2015-2016 per profughi siriani, iracheni afghani in fuga dalle precarie condizioni dei loro Paesi, causate dai tentativi di destabilizzazione dell’area delle organizzazioni terroristiche locali e dei gruppi estremisti religiosi. Bisogna dunque pensare che la destabilizzazione dell’area MENA (Middle East and North Africa) non sia stata sufficientemente rilevante per vedere un’azione dei governi europei? Considerato l’impatto che le crisi mediorientali e africane hanno soprattutto sui Paesi dell’Europa meridionale, ciò risulta difficile da credere. È mancata, piuttosto, la volontà politica di arrivare ad una tale soluzione, visto e considerato che erano stati solo i sopracitati Paesi del Sud dell’Europa ad essere maggiormente interessati dal fenomeno.

L’Ucraina in ciò sarebbe diversa perché la sua destabilizzazione può arrecare dirette conseguenze sulla maggior parte dei Paesi europei, soprattutto per i Paesi dell’Europa orientale e quelli scandinavi. Questi ultimi, in particolare, stanno prospettando, dopo anni di storica neutralità, l’adesione alla N.A.T.O., la principale alleanza militare internazionale.

Quello che, poi, ha colpito particolarmente l’opinione pubblica è stato il fatto che i profughi ucraini sembrerebbero godere di uno speciale status che li ha resi quasi “superiori” rispetto agli altri migranti. Non è stato raro, infatti, dall’inizio della crisi, che venissero respinti dai Paesi dell’Unione profughi di diversa nazionalità, ma altrettanto bisognosi di protezione internazionale. 

Ancora una volta, dunque, sembra che in Europa si tenda ad applicare due criteri diversi per l’accoglienza di persone provenienti da altri Paesi. Il problema è, evidentemente, quello della volontà politica degli Stati membri dell’Unione Europea, che per la crisi ucraina è stata pressoché unanime, ma che è mancata e continua a mancare, invece, in relazione ad altre aree di crisi. Il burden sharing tanto osannato non si verificherebbe dunque sempre, ma solo quando gli Stati ritengono che sia necessario. 

Sarebbe dunque ora di provvedere ad una riforma di questo sistema, per garantire la massima protezione possibile a chi fugge dalla guerra, dalle violenze, così come a chi nel proprio Paese d’origine non può tornare per l’avversione diretta che il governo prova nei suoi confronti. Perché la crisi ucraina è attuale e continuerà a lungo, e, vista l’evoluzione del sistema internazionale cui stiamo assistendo, la possibilità che altre situazioni simili si verifichino presto non è affatto esclusa, ma anzi aumenta sempre più.

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