Memorie di una diva dalla voce dissonante

Basta entrare in doccia, abbandonarsi all’intimità del soffione che libera un getto d’acqua calda assieme ad una nube di vapore, per far alzare il sipario: puoi anche essere un asino ragliante, ma in quel frangente ti è consentito sentirti padrone della scena.
Entro un metro cubico, con la libertà di sprigionare le tue migliori – o peggiori – doti canore senza essere visto, osservato, scansionato, giudicato. Lì esisti soltanto tu, non frega a nessuno se l’abilità per farlo non ti appartiene. E manco frega qualcosa se ti presenti in scena nudo come un verme. Poi ti partono quei cinque minuti di operetta buffa e la cosa la si chiude là.

Il fine conoscitore sa che non è tanto bislacco che l’acustica del bagno sia rinomata e ben si presti alla circostanza, tanto che in una toilette Dave Grohl ci ha registrato le voci di Medicine at Midnight dei Foo Fighters, e lo stesso è successo con alcuni pezzi di Pornography dei Cure (come prova schiacciante, esiste uno scatto che vede Robert Smith seduto sul gabinetto, intento a rattoppare qualche testo). Molti altri hanno fatto lo stesso, prima e dopo di loro. Ma diciamo che se sei un illustre inetto, neppure l’oscuro potere di risonanza può qualcosa.
A questo punto ne sapranno qualcosa i tuoi vicini, che incrociando il tuo sguardo per la tromba delle scale finiranno barricati dietro al mutismo di chi ti ha sentito cantare di merda accompagnato dallo scroscio dell’acqua e tanta vanagloria.

Ci sarebbe da domandarsi se qualcuno dalle dubbie abilità canore, al di fuori di quelle mura gocciolanti, si sia mai convinto di saper cantare come un usignolo tanto da approdare in una delle sale da concerto più celebri al mondo, facendo per giunta sold out! A quanto pare è successo, e questo primato eccezionale e discutibilissimo appartiene ad una voce sconcertante sbocciata durante quel fulgido periodo fatto di splendore e delizia che è stato la Belle Époque.

Florence Foster Jenkins – United States Library of Congress’s Prints and Photographs division.

Se molti personaggi sono passati alla storia per il loro talento e la loro caparbietà nel rincorrere il successo, quella di madame Florence Foster Jenkins è una carriera alternativa, l’avventura – decisamente più avvincente – dell’anti-eroe per eccellenza: la cantante d’opera peggiore di sempre, uno di quei personaggi che nascono di tanto in tanto per ricordarci quanto si possa acquisire fama e notorietà pur essendo inetti patologici. Che è quello che ci viene schiaffato sul muso dalle università italiane, con più della metà dei laureati che fanno cose e vedono gente e manco sanno perché e per come.

Florence si è guadagnata un posto d’onore nella pop culture accumulando varie pubblicazioni editoriali a lei dedicate, documentari – uno dei quali è il docudrama Die Foster Florence Jenkins Story presente su Neflix – e pure una fortunatissima pellicola, Florence Foster Jenkins, che vede Meryl Streep incarnare le sue ricche vesti e Hugh Grant nel ruolo di St. Clair Bayfield, l’uomo che l’ha protetta strenuamente da qualsiasi bruttura della critica rinchiudendola in una bolla di successo fittizio.

Narcissa Florence Foster, nata nel 1868 a Wilkes-Barre, Pennsylvania, ereditiera di un padre banchiere rampollo di una ricca famiglia di proprietari terrieri, ha sempre avuto il lacerante ardore che la collegava con un resistente fil rouge a Euterpe. Sin da bambina, le sue doti si sono espresse in termini pianistici, ed era chiamata teneramente Little Miss Foster con tutti i riguardi del caso. Il suo talento la portò a vincere alcuni premi oltre che ad esibirsi nientepopodimeno che alla Casa Bianca durante l’amministrazione del presidente Rutherford B. Hayes. Una carriera che prometteva bei traguardi, se non fosse che il destino ci ha messo becco: bloccata qualche anno più tardi da un matrimonio con un uomo di sedici anni più grande di lei – il dottor Francis Thornton Jenkins – che oltre a spegnerle le ultime speranze musicali le regalò anche la sifilide.

Provò anche coltivare anche la passione canora, interrotta sul nascere dal padre che – sentendola emettere le prime, doloranti e stridenti note – ritenne opportuno cessare la tortura e che non fosse il caso di elargire un ulteriore dollaro al maestro di canto.

La Jenkins durante una delle sue esibizioni a porte chiuse.

Il suo grande riscatto avvenne poco dopo aver scoperto della sua malattia, che coincise di lì a poco con la morte del padre: fu attraverso questa combinazione di eventi che la nostra diva atipica fece i bagagli e scappò a New York, culla del multiculturalismo dell’epoca e luogo in cui every dream comes true, perfino quello di diventare una celebrità del canto anche se non ne hai la stoffa. Ed in particolare se, dalla tua, hai i favori d’ingenti somme di danaro alle quali attingere.

Un’altra grande fortuna della Jenkins – oltre, chiaramente, a quella di nascere nella famiglia giusta – fu di far parte di svariati club, alcuni dei quali da lei stessa istituiti come il Verdi Club situato al 781 di Madison Avenue, che le permise di edificare una fitta rete sociale oltre al grande merito di promuovere giovani artisti. Un circolo che voleva essere un omaggio al M.o Verdi di cui la Jenkins si dichiarò in più occasioni grande estimatrice, polo d’attrazione per i nomi più influenti di New York. Tra di loro si annidava parte dei fortunati ammiratori “costretti”, loro malgrado, ad assistere anche alle esibizioni canore della stessa Florence che non potevano dirsi propriamente gradevoli.

Fatale fu l’incontro con l’attore teatrale St. Clair Bayfield più giovane di lei, che l’accompagnerà con devozione dai trentatré anni fino alla fine della sua vita, pur non entrando mai in intimità con lei né condividendo le mura domestiche se non durante le ore diurne. Si dice che la loro fosse la rappresentazione dolciastra di un amore platonico, ciò che è certo è St. Clair assunse i panni di suo manager proteggendola dal mondo circostante e tenendola riparata da giudizi tecnici che avrebbero finito per ferirla: per questa ragione, ogni sua esibizione avveniva a porte chiuse, su invito esclusivo e senza la presenza di un solo critico dello spettacolo.

Florence nei panni dell’Angel of Inspiration, uno degli abiti di scena da lei ideati.

Bayfield non poteva non osservare che quelle della sua amata fossero delle doti sgangherate. Una diva con un senso del ritmo pressoché inesistente e vocalizzi trillati e singhiozzati, in aggiunta alla caratteristica peggiore: l’incapacità di tenere una singola nota. Tutto questo nonostante Florence usasse decantare se stessa con grande sicurezza e convinzione, che sfociava in un progetto d’incredibile vanità. Per l’esattezza, madame Jenkins si reputava uno straordinario soprano di coloratura, che per sua natura è consacrato a virtuosismi ed elaborate agilità stilistiche. Già negli anni ’30 del Novecento, la nostra acquisì la risonanza che pensava le spettasse di diritto e che spinse il suo nome ben al di là delle soglie cittadine.
È faticoso pensare quanto grande sia stato lo stupore e la confusione di chi la sentì aprir bocca per cantare, la primissima volta. Ma tra i suoi seguaci si annovera anche Cole Porter, che l’adorava a tal punto da portare con sé – durante i suoi spettacoli – un bastone per darselo sui piedi pur di non scoppiare a ridere.

E lei non poteva che apparire splendida e sicura, intortata in abiti traboccanti di sfarzo, gemme e piume che lei stessa disegnava, a padroneggiare fiera qualsiasi tipo di scenografia le si presentasse a tiro. Ogni spettacolo della Jenkins aveva dell’incredibile. Come stupefacente fu che continuò a concedersi al suo avido pubblico per tanti anni, senza mai ricevere apertamente un parere negativo. Durante qualche recital – tra un ululato ora di Delibes, poi di Mozart e dopo ancora di Gounod – aveva intravisto qualcuno soffocare le risate, ma i reami dell’auto-illusione erano così tanto spalancati che attribuì la cosa a gente malevola mandata da cantanti sue rivali al fine di screditarla.

One of the weirdest mass jokes New York has ever seen.

– Earl Wilson, New York post journal

Solo il 25 ottobre 1944, all’età di 76 anni, decise di cedere alle richieste dei suoi ammiratori affittando la Carnegie Hall per tenere il suo primo vero recital. A quel tempo, la sua fama era già ampiamente diffusa tanto da fare totalmente sold out.

Quell’occasione attirò anche la curiosità dei giornalisti del settore, che mai avevano potuto assistere ad una sua esibizione (o per meglio dire, erano sempre stati tenuti a distanza di sicurezza da Bayfield). Anche loro sotto l’incanto dell’autoelogio della Jenkins, del gran parlare – sempre positivo o elusivo – che se ne faceva e della presentazione della Carnegie con luminarie degne di Lily Pons, Kitty Carlisle e Luisa Tetrazzini messe insieme.
Accompagnata dal pianista Cosmé McMoon si lanciò in un volo di Icaro, nella rincorsa di un tempo che sembrava non avesse intenzione di farsi afferrare, all’interno di un repertorio spropositato che metteva in risalto armonizzazioni malamente steccate ed un’intonazione traballante.

La critica fu per forza di cose spietata. Il giorno successivo, il New York Post tuonò con Earl Wilson – giornalista di gossip e spettacolo – che scrisse di quanto il concerto fosse uno dei più strani scherzi di massa che New York abbia mai visto.

Leggenda vuole che questi giudizi spietati – cinque giorno dopo – le procurarono un attacco di cuore, mentre si trovava ad acquistare spartiti nel negozio di musica di G. Schimmer. Più plausibile che la strana coincidenza affondi le sue radici nella sifilide. A noi, di Florence, non rimane altro che una storia bizzarra, una miriade di osservazioni e qualche documentazione oltre ad un disco The Glory (????) Of The Human Voice che fece incidere a sue spese e di cui distribuì delle copie al suo fluente seguito. ‘Ste copie se le fece pagare, sia chiaro… ma tutti i proventi andarono in beneficenza, come anche quelli ottenuti dalle sue esibizioni.
Curiosamente – ma manco troppo – durante la sessione di registrazione, gli addetti ai lavori la implorarono più e più volte di rifare questo e quell’altro pezzo ma lei no, ben convinta si rifiutò sempre!

Probabilmente, la perplessità più grande
che aleggia attorno alla sua figura ha portato per tanti anni ad interrogarsi se ka Jenkins fosse realmente inconsapevole della sua innata incapacità tanto da farla coagulare nella cieca convinzione di essere un soprano di un certo calibro o se, piuttosto, giocasse a mantenere un ruolo con magistrale ironia. Si è ipotizzato anche soffrisse di acufene derivante dalla sifilide, disturbo che a quel tempo veniva addolcito e romanzato con la denominazione di rumore degli angeli e che la portava ad avere fisso nelle orecchie una specie di ronzio insistente che non le consentiva di percepire chiaramente i suoni (quelli che ascoltava, come quelli che emetteva).

Ha davvero importanza arrovellarsi nella ricerca di una qualunque risposta?

Trovarci davanti a contesti così smaccatamente melodrammatici come quello espresso da Florence ci può insegnare che, probabilmente, sarebbe opportuno seguire le orme de L’Appeso dei tarocchi, che spesso per sua stesso volere finisce legato per un piede a quel ramo e lo fa con l’intento di porsi in una situazione indubbiamente scomoda, che però è l’unica condizione in grado di consentirgli di rovesciare prospettiva così da poter cogliere un punto di vista nuovo, totalmente rigenerato.
È questo il presupposto essenziale per sopperire alla mancata bravura e penetrare in un mondo sensibile, facendo uno squarcio nella materialità e sfondando la barriera del personaggio da schernire a tutti i costi.
Florence ha osato distinguersi – pur con degli evidenti difetti, ma sempre senza freni ed imbarazzi – all’interno di una società che vedeva la silhouette della donna ancora adombrata, a scoppiare la bolla dell’emancipazione, tra la liberazione dalla trappola dei corsetti e l’aria della Regina della Notte urlata come se fosse sul ciglio di un burrone.

La gente può dire che non so cantare, ma nessuno può dire che non ho cantato.

– F. F. J.

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