Da Vega al cosmo dei bias culturali

dipinto in copertina: Giuseppe Arcimboldo, Vertumno (particolare) – 1590


Sono quasi certa che fosse un’antica leggenda dell’America precolombiana a narrare che è proprio il cattivo sangue che corre tra onnivori e vegani a creare tanta di quella energia in grado di alimentare il perpetuo moto terrestre.

E sì, vegani e vegetariani… quelle creature chimeriche per metà extraterrestri e per metà alla stregua di un’orda di testimoni di Geova, spesso ghettizzati e soggetti più quotati per le barzellette (sempre dopo carabinieri e francesi, chiaramente). Si pensa che il loro sia un fenomeno d’élite, una moda dei giorni nostri figlia di un surplus di benessere o, meglio ancora, prerogativa di quei santoni eccentrici disgiunti dal mondo reale e dalla società stessa a cui la psichedelia in puro gusto ’70s ha fatto decisamente male. Insomma, una di quelle robine strambe lì, dai!

Pensare che già il filosofo Platone, all’epoca sua, aveva preso in considerazione che il consumo di carne non fosse poi una pratica così etica, sulla quale interrogarsi a fondo; e dopo sia subentrata la Bibbia ad insegnarci che se sacrifichi un agnello a dio, allora magari lui ti ascolta.
[Ad Abramo, le Alte Sfere Celesti domandarono il sacrificio di suo figlio. E lui lo stava pure facendo.]

Con dio sarebbero probabilmente d’accordo le nonne italiane, che non rinunciano alla lasagna col macinato di carne cucinato per un quantitativo impronunciabile di ore e figurarsi se si sarebbero mai aspettate che sarebbe giunto il mefistofelico seitan a sostituirlo nel sugo dei vegani.

Ma questa dieta plant based sarà poi una moda transitoria? La Vegan Society dà qui la sua risposta spiegando perché si tratti di una scelta che scavalca il concetto di tendenza e sia auspicabile tanto per gli animali, quanto per gli esseri umani e il destino del nostro pianeta.

Da pochi anni si sta assistendo ad una naturalizzazione in larga scala di questa filosofia, fomentata in buona parte da personaggi celebri che, approfittando della loro fama, hanno sparso al mondo il loro messaggio. Un po’ come Morrissey, leader della band The Smiths, che a buona memoria non ha mai perso un’occasione per benedire l’universo con la sua schiettezza nell’affrontare temi delicati come l’animal cruelty; non volendosi affibbiare l’etichetta di vegano, ha sostenuto più semplicemente:

I’m just me. I refuse to eat anything that had a mother, that’s obvious.

O Joaquin Phoenix che, dopo essere arrivato al vasto pubblico con la sua intensa interpretazione di Joker, è stato beccato  mentre prendeva parte ad una protesta in difesa dei diritti degli animali: da quel momento ha colto l’occasione per spronare la gente a compiere una scelta più consapevole, anche, e soprattutto, in previsione del cambiamento climatico. Anche il baronetto ed ex Fab-Four Paul McCartney ha subito un cambio di rotta un giorno del 1975, mentre era a pranzo con la prima moglie, Linda: videro un agnellino scorrazzare in un prato limitrofo e si commossero, poi buttarono un occhio al piatto fissando un suo simile dall’aspetto decisamente meno spensierato; la sensazione che provarono allora, li spinse ad abbracciare un’alimentazione vegetariana e a portare avanti svariate battaglie contro la crudeltà sugli animali.

Massimo Brunaccioni con al collo la medaglia del WNBF, la World Natural Bodybuilding Federation

Grazie a questa ondata di naturalizzazione, Massimo Brunaccioni atleta e coach vegano molto seguito sui social e discreto figo – ci ha permesso di sfatare il mito che chi non mangia carne e derivati sia per antonomasia una creaturina emaciata e malaticcia, oltre che arginare la balla che vegano e atleta non siano due termini che possano coesistere nella stessa frase. E puoi perfino mettere su muscoli e fare il bodybuilder, per giunta senza bombarti di porcherie. Mentre ElefanteVeg e Cucina Botanica, dai loro canali YouTube, rivelano quanto sia semplice e pratico (e anche non dispendioso) condurre un regime alimentare vegano non preveda necessariamente il classico tofu, e che il palato possa assolutamente averne a che godere!

Un esempio meno celebre ma enormemente splendido è quello di Massimo Manni, che attraverso una pagina Facebook racconta, giorno dopo giorno, il suo Santuario Capra Libera Tutti: partito come allevatore, si è convertito ad uno stile di vita vegan e ha riconvertito il suo appezzamento di terreno in un’oasi di pace e riscatto in cui accoglie qualsiasi tipo di creatura animale dando ad ognuna di loro l’opportunità di vivere felice, in amore e con dignità; insieme a Kruzco – un bellissimo lama – come mascotte d’eccellenza.

Massimo Manni di Santuario Capra Libera Tutti in compagnia del lama Kruzco

Da tutta questa fenomenologia non poteva che scaturire una variazione del mercato, e quindi via anche alla cosmesi vegan e cruelty-free – come ad esempio l’azienda britannica Lush (nota ormai in tutto il mondo) che ha in gamma ben il 95% di prodotti privi di ingredienti di origine animale e nel 2012 ha pure ospitato la performance dell’artista Jaqueline Traide in uno dei suoi shop. Ed è così che in una vetrina di Regent Street, nella piena frenesia di Londra, una donna si è sottoposta agli stessi test a cui devono sottostare gli animali da laboratorio. Una cosa cruda e brutale, e d’altro canto le performance d’artista hanno il compito di creare un punto di rottura – spesso in maniera assai diretta  – provocando una reazione e spingendo a rivalutare ogni cosa. 

Jaqueline Traide in occasione della performance d’artista ospitata nella vetrina di Lush, in Regent Street. Image: www.fightinganimaltesting.com

Parlando di punti di rottura, anche nel campo della moda abbiamo assistito ad una svolta: basti pensare alla Vegan Fashion Week di Los Angeles, nata nel 2019, che promuove il concept secondo cui – manco a dirlo – lusso e stile non siano vincolati a pellami e filati di origine animale. Molti designer hanno abbracciato e stanno abbracciando questa identica visione, tra cui il grande stilista Valentino Garavani che ha dichiarato che dal 2022 avrebbe abolito le pellicce dalle sue collezioni, mostrandosi favorevole a perseguire una produzione più etica e fur-free

Valentino Garavani con alcune delle sue creazioni declinate nell’iconica nuance Rosso Valentino, caratteristica dello stilista italiano

Volendo andare a sentire pulsare il cuore della questione in tutta la sua battente carnalità, la maggior parte di chi s’incammina in questo percorso lo fa con l’intento principale di perseguire una certa filosofia morale che si ricollega al pensiero antispecista, che riconosce eguale dignità a qualsiasi creatura indipendentemente dalla sua specie d’appartenenza. Il minimo comune denominatore pare essere una visione non violenta della vita, che poi sarebbe la stessa che si trova alla base di buddhismo, induismo e giainismo che – parimenti – perseguono un’alimentazione priva di sofferenza animale. Tutto torna.

Il dio Krishna con una mandria di mucche, animali venerati in India.
Uno degli appellativi del dio è Govinda, protettore delle mucche

E oltre a tornare, pare essere anche un quadretto illibato e bellissimo, sennonché… perché i vegani risultano tanto antipatici?
Perché rompono il cazzo!, tuonerebbero i più. Cioè, magari la sciura esprimerebbe il concetto con tono più garbato, ma sappiate che queste esatte parole le aleggiano nella mente anche se non osa che le oltrepassino le labbra.
E rompono il cazzo perché, a dire di molti, sono permeati da un alone di superiorità e vogliono imporre agli altri la loro visione. In questo clima di atroce costrizione mentale, perdonatemi ma un segreto ci tengo a svelarvelo anche se non sono la Madonna di Fatima: è un qualcosa che bene o male tendiamo a fare tutti quando abbiamo a cuore una questione, ovvero portare avanti le nostre ragioni. Anche infervorandoci, sì. E per quanto anche tra i vegani ci siano certi soggettini da evitare – lì nella marmaglia come in ogni altra marmaglia – non sono poi mica tutti così. C’è chi si sa fare i cazzi propri, e anche quando non proferisce sillaba non va bene comunque perché, volendo, si trova la scintilla per far scoppiare l’incendio.

Quindi dove sarebbe il problema concreto? Plausibilmente, è un qualcosa di attribuibile al meat paradox, ovvero il paradosso della carne: in parole più comprensibili, è un processo che si verifica in seguito all’azione di porre – consapevolmente o meno, non ha importanza – la controparte di fronte ad una dissonanza cognitiva che è traducibile con Mangi carne ma al cagnolino e al gattino compri il cappottino come se si trattasse di un bambino. Ino, ino e ancora ino. E poi magari t’indigni per il festival di Yulin dove i cinesi mangiano i cani, per il circo e le povere bestiole sfruttate e ammaestrate o per la corrida che mata el tor in tutta la sua straziante spettacolarizzazione dai toni sanguigni.
Dissonanza cognitiva, sì. O controsenso. Meglio ancora, ipocrisia… fate vobis.

Il meat paradox dà origine, in altre parole, a quel tracollo esistenziale che ti porta a collegare la carne inghiottita all’animaletto da salotto che fai dormire sotto le coperte con te.
Ed è esattamente questa frattura a dar vita ad una forma di difesa sociale del proprio comportamento, stando ad uno studio della canadese Calgary University che ha voluto indagare su come pregiudizio e discriminazione nei confronti di vegetariani e vegani tanto quanto altre categorie minori  ed anche su come questi pregiudizi abbondino maggiormente in chi presenta ideali di destra. Ma sarà di sicuro l’ennesima, infausta casualità.

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